mercoledì 27 luglio 2011
Può fallire anche l’America?
L’ultimo segnale che la situazione è davvero grave, è l’appello del governo cinese rivolto a Washington: “Dovete proteggere gli interessi degli investitori”. Con 1.000 miliardi di titoli del Tesoro Usa nella cassaforte della sua banca centrale, la Cina è il primo di quegli investitori esteri a dovere immaginare l’impensabile: il “default” degli Stati Uniti d’America. Altro che Grecia, altro che Italia. Lo stallo, tutto politico, del negoziato fra Barack Obama e i repubblicani costringe il mondo intero a interrogarsi su uno scenario assurdo, inaudito, l’Apocalisse della finanza globale. Ma davvero può fallire la più grande economia mondiale? Può, in teoria e di fatto, eccome se può, è l’avvertimento che anche il New York Times lancia alla sua classe politica: “Qualsiasi ritardo nell’onorare i debiti equivale di fatto a un’insolvenza. Quand’anche fosse breve, potrebbe scuotere la fiducia nell’economia americana, e sconvolgere gravemente i mercati finanziari globali”. Che la situazione sia drammatica lo conferma perfino la toponomastica: per qualche giorno è stata ventilata l’ipotesi di spostare il negoziato Obama-democratici-repubblicani a Camp David, la residenza dove altri presidenti americani ospitarono le trattative di pace israelo-palestinesi. Un segnale che stavolta è l’America stessa il teatro di un conflitto destabilizzante. All’origine c’è una norma speciale che regola le finanze pubbliche Usa. Il Congresso ha il diritto-dovere di fissare un limite al debito. Raggiunto quel limite legale, il Tesoro non può procedere a nuove emissioni di titoli per rifinanziarsi, finché il Congresso non rinnova l’autorizzazione. Il limite fatidico ormai è raggiunto, 14.300 miliardi di dollari. La data fissata per la “fine del mondo” è il 2 agosto. Se prima di allora il Congresso non avrà votato un innalzamento del debito, il Tesoro non potrà rifinanziarsi. Il Congresso è spaccato, i democratici controllano il Senato e i repubblicani la Camera. Se non arriva l’accordo bipartisan cesseranno pagamenti di servizi essenziali, come le pensioni. Ma più delle conseguenze concrete sulla popolazione americana, il resto del mondo s’inquieta per le ricadute sui mercati. Una interruzione sia pure momentanea dei pagamenti di Washington ai suoi creditori planetari può scatenare il panico sui mercati. Stiamo parlando dell’economia più ricca del mondo; della moneta (il dollaro) più diffusa come mezzo di pagamento universale; del titolo (Treasury Bond) più ubiquo e liquido, onnipresente nei portafogli di tutte le categorie di investitori (banche, fondi pensione, assicurazioni). Da qui al 2 agosto il conto alla rovescia può essere punteggiato da accessi di paura collettiva. Non importa se la crisi è artificiale perché “fabbricata” dalla politica. Le sue conseguenze sono reali. Questo rischia di trasformarsi nel temuto “after-shock” del 2008-2009. Le grandi crisi finanziarie della storia hanno spesso avuto delle scosse di assestamento successive. Dopo la recessione innescata dal disastro dei mutui subprime, un’altra catastrofe globale potrebbe essere “made in Usa”, stavolta prodotta dal corto circuito tra escalation debitoria e calcoli politico-elettorali. Colpisce la sproporzione tra le cause. Da una parte c’è il declino americano provocato da politiche neoimperiali (due guerre, 3.000 miliardi di costo reale); il dissanguamento delle entrate fiscali per le politiche neoconservatrici; la demografia che porta in pensione le generazioni popolose del baby-boom. D’altra parte c’è il calendario elettorale: le elezioni presidenziali del novembre 2012 suggeriscono ai repubblicani una politica del “tanto peggio tanto meglio”. Sperano che un disastro economico affondi le speranze di rielezione di Obama. Lui stesso non sembra escluderlo: “Questa crisi può segnare la fine della mia presidenza”. Se fosse solo questione di cifre, l’accordo tra democratici e repubblicani non sarebbe difficile: stiamo parlando di tagli fra 2.000 e 4.000 miliardi ripartiti fra nuove tasse e riduzioni di spesa, ma spalmati su molti anni a venire (una decina). Una manovra di lacrime e sangue, certo, tanto più se si raffronta con le cifre della “manovrina” Tremonti in Italia; però le spalle robuste dell’economia americana potrebbero reggerla. L’ostacolo vero è l’ideologia: la destra non accetta un solo centesimo di tasse in più, neanche sui miliardari o sugli hedge fund, in nome di un liberismo estremo. Perfino il banchiere centrale, Ben Bernanke, ormai evoca una “calamità finanziaria immensa”. Moody’s ne trae le conseguenze, tratta gli Stati Uniti come un’Italia qualsiasi, annuncia “crescenti possibilità” che l’accordo non sia raggiunto il 2 agosto e che questo si traduca in un declassamento del rating. Uno dei blog più autorevoli sui mercati finanziari, Etoro, si chiedeva pochi giorni fa: “L’euro potrebbe sopravvivere a un default della Grecia, forse anche del Portogallo, ma dell’Italia?” Ora quell’interrogativo si declina a un multiplo di potenza: dollaro, Borse, banche, chi mai potrebbe sopravvivere a un default americano? Un guizzo di buonsenso dell’ultima ora tra i politici di Washington, o una trovata d’ingegneria giuridico-finanziaria, devono poter fermare il treno che corre a velocità folle verso la collisione. La tempistica non potrebbe essere più infelice: con i mercati già in fibrillazione isterica per le convulsioni dell’eurozona, la tempesta perfetta è vicina.
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